Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

domenica 9 marzo 2014

Giustizia e Misericordia


Giustizia e Misericordia 





di padre Damiano op

Tutti siamo pronti ad assumerci le responsabilità, tutti ci responsabilizziamo quando ci troviamo davanti qualcosa, davanti ad un fatto magari da testimoniare, ma tutti non sappiamo cosa significa, con esattezza invece “giustizia”. Questi due termini “giustizia e misericordia” che hanno un metro di paragone apparentemente simile, possono invece avere parametri completamente diversi se riferiti a noi uomini o se riferiti a Colui che è al di sopra di noi: all'Eterno Dio.




Se noi analizziamo il testo della Bibbia, il Pentateuco, troviamo una serie infinita di regole che riguardano il rapporto tra esseri umani, il rapporto tra l'uomo e il suo amico, mentre troviamo una serie minore di regole rispetto al rapporto tra l'uomo e Dio; questo perché il compito che è stato affidato all'uomo sulla terra, creato a immagine e somiglianza di Dio, è quello di gestire una vita sociale nei confronti del proprio prossimo. Tant'è vero che più volte noi troviamo una ricompensa per il buon comportamento tra esseri umani e quasi mai una ricompensa per il rispetto che ci deve essere tra l'uomo e Dio. Questo perchè laBibbia stessa vuole darci un'indicazione su quello che deve essere il comportamento della vita sociale tra uomini. Se noi pensiamo un momento, parlando di giustizia umana e divina, ai primi due capitoli del libro della Genesi, in tutto il primo capitolo, considerato la cronologia della creazione che è stato oggetto di approfondito studio da parte degli esegeti, non troviamo mai il tetragramma, mentre lo troviamo nel secondo capitolo.
Nel primo capitolo troviamo sempre Elohim che non significa soltanto Dio, (e di questo ne abbiamo la certezza nel libro dell'Esodo e precisamente nel cap. 21 dell'Esodo, dove esso viene anche attribuito a degli esseri umani), al vers. 6 del cap. 21 a proposito dell'amministrazione della giustizia tra il padrone ed il servo, troviamo scritto: “e il suo padrone lo avvicinerà agli Elohim” e allora non possiamo altro che tradurre Elohim con giudici; quindi Dio è il giudice per eccellenza! 


Elohim viene usato nel primo capitolo della Genesi, perchè il Signore Iddio ha provato a creare il mondo con giustizia, mentre, sembra quasi che nel secondo capitolo ci abbia ripensato un po'; cioè, se avesse dovuto crearlo solo con giustizia, probabilmente oggi il mondo non ci sarebbe più. Per questo, aggiunge il tetragramma l'attributo della misericordia divina, dove rachamim è il plurale di rechem, cioè utero materno; e una madre nei confronti del proprio figlio per quanto possa essere traviato e lontano, non può usare giustizia, o almeno non può avere un atteggiamento di esclusiva giustizia, perchè tutti gli esseri umani sono stati creati per poter sbagliare e poter poi rimediare ai loro errori. 


Il termine Elohim deriva da una radice araba illaha che significherebbe la forza divina creatrice; è la giustizia per eccellenza, la giustizia pura che, nonostante fosse considerata un attributo divino è pur sempre relativa, perchè Dio crea con giustizia ma poi aggiunge la misericordia quindi, anche noi, esseri umani, non possiamo giudicare se non usiamo misericordia. Ma c'è anche un qualcosa che vedremo nel corso di questa mia breve relazione, qualcosa che accompagna la giustizia e che è definita responsabilità. 




Tant’è che nel libro del Levitico al v. 17 cap. 19 è detto: “non odiare in cuor tuo, tuo fratello, riprendi riprendi il tuo amico, affinché tu non possa aver colpa” in ogni caso, quando i verbi all’imperativo vengono ripetuti, vuol dire che la Bibbia sottolinea la cosa in modo particolare. Riprendilo, riprendendo il tuo amico affinché tu non possa peccare! Cioè ognuno di noi ha il dovere di riprendere il proprio fratello. Cioè l'avvertimento; avvertimento che va fatto in pubblico, davanti a testimoni, affinché chi lo fa, non possa essere colpevole di tacere davanti a colui che si trova nella condizione di sbagliare. Noi troviamo spiegato questo imperativo così marcato che in caso di testimonianza in tribunale, lo si faccia sempre dinnanzi all’interessato. Cioè non si testimonia se non davanti a colui che ascolta cioè a dire, io debbo portare in tribunale questa cosa ma davanti a colui che è imputato, a proposito di ciò che è scritto nel libro dei Salmi: “ascolta Popolo mio affinché io parlerò” e i maestri continuano a dire “non si rimprovera una persona se non quando sta davanti e non si rende lode ad una persona, se non quando sia assente. Cioè si cantano le Lodi in sua assenza ma lo si riprende in sua presenza. 


Detto ciò potremmo tranquillamente fare un excursus biblico di quello che è la giustizia e la misericordia nella tradizione cristiana, di cui troveremo cenni in tutta la Bibbia
Il primo in assoluto è a proposito di quello che può definirsi il primo omicidio della storia: Caino e Abele.
Al cap. 4 vers. 9 troviamo scritto: “e disse il Signore a Caino dov’è Abele tuo fratello? Non lo so forse che io sono il custode di mio fratello” e disse ancora “cosa hai fatto?, la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra” quindi c'è un accusa da parte di Dio a Caino di aver fatto un qualcosa, un qualcosa di particolarmente grave. E’ per questo che Caino dice al Signore: “… è tanto grande la mia colpa da poterla sopportare”. Dio non punisce Caino con la morte; eppure Caino ha ucciso, è un omicida all'interno della famiglia, ha ammazzato suo fratello ma Dio non lo punisce con la morte, lo punisce con una pena che può essere da esempio nei confronti di altri e pone una sentenza:
“dunque, chiunque uccide Caino verrà punito per 7 volte” cioè a dire Caino è un omicida, Caino si è reso conto della sua grave colpa, non va ucciso perché Dio non ripaga con la stessa misura, ma lascia un segno che deve essere da esempio per tutti gli altri uomini della storia, perchè se Dio avesse ucciso Caino si sarebbe macchiato della stessa colpa di cui Caino stesso si è macchiato. 


Dio viene definito da uno dei più grandi Patriarchi dell'Antico testamento, Abramo, “il giudice di tutta la terra” è una sfida quella che Abramo lancia a Dio. Cosa significa allora giustizia divina? Come potremmo definire Dio giudice, Abramo dice: “forse il giudice della terra non fa giustizia”. Si sta parlando di Sodoma e Gomorra, sono l'esempio più classico della responsabilità collettiva degli esseri umani, Abramo che si sente investito della responsabilità di salvaguardare l'umanità combatte con Dio sfidandolo dicendo “forse il giudice di tutta la terra non sa fare giustizia?” .Dio voleva distruggere Sodoma e Gomorra ma Abramo qui appare più grande di Dio perché vuole risparmiare degli esseri umani e Dio lo asseconda dicendogli che,” se ci sono dei giusti io non distruggerò Sodoma e Gomorra” ma va tu a cercarli perchè così ti renderai conto che giusti non ce ne sono. Purtroppo non è solo lì il fatto di ravvedersi dai loro atti è una società che non ha più la possibilità di tornare indietro, è talmente traviata che soltanto la distruzione di essa, può essere un mezzo di miglioramento, ma Abramo intende la giustizia in modo diverso. 


L'uomo non ha una visione della giustizia uguale a quella divina; trovandoci davanti ad una disgrazia, alla morte di un bambino o alla sofferenza di una persona diciamo: “ma che giustizia è questa” , cosa ha fatto di male un bambino per essere venuto al mondo e poi morire, quante volte noi uomini ci troviamo davanti a certe situazioni e diciamo ma è forse giustizia questa? I parametri sono completamente diversi, tante volte noi vorremmo uccidere e Dio no quindi adesso vedremo quando si tratta appunto di elencare le differenze tra il modo di interpretare la giustizia divina e quella umana. C'è un altro posto dove si parla di responsabilità. Nel brano in cui si parla di Giuseppe che sta in Egitto e che trattiene Simeone per vedere Beniamino, fratello più piccolo. Giacobbe che ha paura, i figli di Giacobbe, che cercano di incoraggiare il loro padre, ma hanno più paura di lui, quando si tratta di prelevare Beniamino e portarlo in Egitto. Giacobbe che dice:“Giuseppe non c'è più, non c'è più Simone e Beniamino ve lo prenderete, cosa sarà della mia vita?” Ad un certo momento, davanti a questo dramma familiare c'è Ruben, primogenito, il quale esordisce con un'espressione poco simpatica che Giacobbe non gradisce affatto, al vers. 37 del cap. 42: e Ruben dice a suo padre: “metterò a morte i miei figli se non riporterò a te Simone e Beniamino”. Giacobbe si adira contro Ruben, lo tratta da stupido, gli chiede che parole siano quelle, quale nonno può sentirsi dire “metterò a morte i miei figli per riportare tuo figlio”, Giacobbe dice che Beniamino non scenderà insieme a loro in Egitto, non se ne parla fin tanto che c'è un intervento più saggio, molto più familiare: quello di Giuda, il quale dice :“manda il fanciullo con me e andremo, vivremo tutti e non moriremo. Ecco qui c'è la parola “vivremo”, io ti garantisco con la vita non con la morte che ti riporterò Simone e Beniamino. C'è una garanzia di vita, questa è giustizia non la morte. La morte non da garanzia perchè è morte , la vita si, il famoso detto popolare:”finché c'è vita, c'è speranza”, la speranza di una garanzia, di miglioramento, di vita. Qui troviamo il vero concetto di responsabilità del singolo riguardo la collettività, nella famiglia nei confronti di due esseri umani, ed è per questo che Giacobbe accetta. Accetta soltanto quando si parla di garanzia di vita. 


Nel libro del Deuteronomio troviamo proprio la parola “zedek” - giustizia, diversa dalla parola “mishpat “, “la giustizia, la giustizia inseguirai” perchè due volte la parola “zedek” ? Perchè probabilmente la Bibbia vuole insegnare all'essere umano come si è veramente-giusti - “zaddikim” , non soltanto come “chasidim “- buoni - giustizia per eccellenza oppure come” chesed”, misericordia, o insieme, tant’ è che i commentatori traducono il primo “zedek” con “giustizia buona” l'altra è “mishpat”, la giustizia giusta, la giustizia per eccellenza. Tu dovrai emettere una sentenza tenendo presente queste due cose e finalmente troviamo l'espressione di Giobbe che dice: “è giusto il Signore nelle sue vie ed è buono in tutte le sue opere” quindi c'è la parola zaddik e la parola chasid , e il Salmo dice: “la bontà e la verità si incontrano, la giustizia e la pace si baciano”. Come è possibile che possano andare d'accordo la bontà con la verità e la giustizia con la pace? Se è verità, deve essere giusta, cioè dobbiamo vedere attraverso gli occhi del giudice, colui che sa essere imparziale davanti ad un fatto, sa essere arbitro delle cose vere. Isaia termina il suo primo capitolo con le parole: “Sion verrà riscattata con la giustizia per i suoi abitanti, cioè Dio non vuole la morte del peccatore ma la sua conversione. 
Voglio concludere citando e commentando il testo del  salmo 50
"Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nel tuo grande amore cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto; perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha generato mia madre. Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell'intimo mi insegni la sapienza.

Purificami con issopo e sarò mondato; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia; esulteranno le ossa che hai spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe, Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo Santo Spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostiene in me un animo generoso.

Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno. Liberami dal sangue, Dio, mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode, poiché non gradisci il sacrificio e se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato tu, o Dio, non disprezzi.

Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme. Allora gradirai i sacrifici prescritti, l'olocausto e l'intera oblazione, allora immoleranno vittime sopra il tuo altare".

Davide scrisse il salmo dopo che Natan, il profeta, lo aveva chiamato a rendere conto del suo adulterio con Betsabea e dell'omicidio del marito di lei (2Sam.11-12).

Pieno di angoscia, Davide si rivolge a Dio e implorandolo gli chiede misericordia, quell'amore particolare, pieno di dolcezza che è presente nel cuore di Dio e spalanca la porta della riconciliazione con lui. La misericordia è la capacità di Dio di "fare l'impossibile" per offrire il perdono, la salvezza e l'amore al peccatore pentito. Infatti è a questo amore speciale di Dio che Davide fa appello con successo, anche perché se non fosse stato consapevole di questa divina misericordia, avrebbe potuto rimanere schiacciato sotto l'immane peso della sua colpa.

Pochi salmi come questo sono serviti ad esprimere i sentimenti dell'essere umano peccatore davanti a Dio. Il riconoscimento del proprio stato di peccato segna l'inizio della conversione interiore. L'interiorità, luogo decisivo per l'uomo nel cammino verso la verità, è la capacità di rientrare in se stessi, di comprendere il senso delle azioni compiute e che si compiono, perché soltanto nell'intimo si possono valutare e giudicare.

E l'esperienza attesta che c'é un nesso inscindibile tra la conversione del cuore e la riconciliazione sociale e politica. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni senza una conversione del cuore (per meglio comprendere questa tematica, rileggere nella sezione meditazioni "L'amore di Dio" e "La salvezza").

Generazioni di essere umani (lo scrivente stesso) hanno trovato in esso la via che conduce alla casa del Padre, la grazia di una purificazione che non può venire se non dalla Parola di Dio e la gioia dell'amicizia con il Signore, La preghiera è di una ricchezza inesauribile e attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce i gradini di una scala che ci porta verso l'alto, vi è in ognuno di essi una grazia soprannaturale che ci sospinge fuori dalle acque stagnanti del peccato verso un'atmosfera spirituale e divina, per farci respirare e vivere in quel modo nuovo che Dio ricrea attorno a noi man mano che lo invochiamo con le parole che egli stesso ci suggerisce.

Poche volte, il senso del peccato e della sua intima malizia ha trovato più adeguata espressione. Infatti il primo passo sulla strada della conversione è la conoscenza di sé, e Davide l'ha veramente raggiunta. Non si tratta di un dispiacere momentaneo di chi poi se ne va scordando quello che è successo. Si tratta, come potete ben comprendere, di quel profondo shock causato dalla effettiva conoscenza di se stessi; è lo shock della consapevolezza della propria responsabilità davanti a Dio e nei confronti del prossimo.

La prima parte del salmo è il riconoscimento di una situazione. Osserviamo i verbi, sono tutti all'indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, nell'intimo mi insegni la sapienza.

La seconda parte esprime la supplica. Qui la preghiera cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all'imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.

La terza parte tratta di un progetto per l'avvenire e i verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà, gradirai.

I primi versetti ci introducono con queste parole: "Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nel tuo grande amore cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato". Ecco, vedete, il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è dunque l'iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà. Inoltre si tratta di un'esplosione del sentimento che ogni peccato è un'offesa a Dio, una separazione e un allontanamento da lui, una condanna del peccatore e che Dio solo può purificare il colpevole e ridonargli la vita e la gioia serena della coscienza con l'effusione del suo Spirito , ricreando in lui una nuova esistenza. Emerge anche in questi primi versetti che la riparazione della colpa deve essere compiuta con un atto interiore di umiltà, di fiducia e di contrizione che risani il cuore .

Ai vocaboli che indicano lo sbandamento dell'uomo, "peccato....colpe", fanno riscontro tre appellativi divini: "Pietà...misericordia...amore". Tutto ciò mette in evidenza che l'insistenza non è sull'uomo colpevole, sulla povertà di ciò che noi tutti siamo, ma è sull'infinità di Dio.

"Pietà di me, o Dio". Si chiede a Dio che sia per noi grazia , che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà. Dio è l'essenza gratuità e quando diciamo che Egli non può avere alcun interesse a pensare a noi, a occuparsi di noi, riveliamo di avere un'idea falsa di Dio. Dio è felice e gode nel potere donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso simile a un paria; vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.

"Secondo la tua misericordia". E' interessante osservare che l'espressione è appunto: secondo la tua misericordia, non "nella tua misericordia" o "perché sei misericordioso". La preghiera ci indica la proporzione infinita della misericordia divina, che l'uomo intuisce senza comprenderla. Sappiamo però che si fa più tenera quando siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, e forse pensiamo che Dio ha ragione a non ricordarsi di noi.

"Nel tuo grande amore". Il versetto è profondamente materno e designa la capacità di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne di cosa propria. Questo attributo di Dio può essere un poco capito da chi ha amato un'altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato e per sempre. Potremmo quasi tradurre: "secondo la tua grande passione per l'uomo, abbi misericordia, o Dio".

Queste tre invocazioni e attribuzioni ci danno il tono del salmo 51 (Miserere) che è un inno ad incontrare Dio così com'é; ci invita anzitutto ad avere una giusta idea del volto di Dio.

Il riconoscimento della colpa. "Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto......Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre. Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell'intimo mi insegni la sapienza". Dopo avere considerato le tre attribuzioni di Dio, ci soffermiamo sui tre soggetti che vengono presentati in azione. Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l'io. Io riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male. Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato (personale, sociale o collettivo). Il peccato e la realtà del peccato in cui l'uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha generato mia madre. Il terzo soggetto dell'azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il "Tu". C'é quindi l'io che riconosce, c'é una determinazione generale della situazione di colpa, c'é il Tu che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu nell'intimo mi insegni la sapienza. Nel testo ebraico l'espressione "Tu vuoi la sincerità del cuore" è più difficile: "Tu ami la verità nell'oscuro", cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l'uomo è perduto nei meandri della sua coscienza. "Tu mi insegni la sapienza nel segreto". La sapienza è una delle realtà più alte e più profonde dell'Antico Testamento: essa è ordine, proposizione,luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.

Ecco la chiave della prima parte del salmo; Dio, nella sua iniziativa di amore e misericordia, proietta nell'oscurità della psiche di ognuno, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo ci porta a scoprire la verità su noi stessi, ci dà respiro, ci aiuta a coglierci rispetto a ciò che siamo chiamati a essere, a ciò che avremmo dovuto essere, a ciò che possiamo essere con la sua grazia.

La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell'anima dove neppure noi stessi ci rendiamo conto di ciò che succede, ci istruisce e ci sospinge alla sincerità e all'autenticità di quello che veramente siamo.

Ora, se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano poco sopra: "Contro di te, contro te solo ho peccato". Cioè, ho fatto ciò che non va davanti a te. E a prima vista ci pare strana questa espressione, se ben ci pensiamo, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l'emblema della vicenda raccontata nel salmo, ossia Davide e al suo peccato. Altro, si direbbe, che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore.

Eppure l'insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. Facciamo attenzione, qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di inganni, ed è solo il profeta Natan che glielo rinfaccia. Tuttavia, quando gli vengono apertamente dichiarati gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.

Peccando contro l'amico con il tradimento, con l'infedeltà e con l'adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua. Ricordiamo che il re Davide era un uomo profondamente buono, incapace di voler male ai nemici; era profondamente leale, anzi la sua integrità e la sua lealtà sono rimaste proverbiali nella storia di Israele. Al momento del suo incontro con Betsabea, moglie di Urìa, era un uomo maturo, non privo di esperienze affettive e, a questo punto della sua vita, aveva già avuto quello che voleva, conosceva i suoi limiti, la debolezza umana. Nondimeno, attraverso una serie di circostanze, l'eroe Davide diventa sleale, infedele, traditore. Nel secondo libro di Samuele, alla fine del capitolo 11, un capolavoro della letteratura, leggiamo: "Ma l'azione che Davide aveva commesso dispiacque al Signore" (v.27). Il profeta Natan si presenterà e gli racconterà la storia di due uomini, uno ricco e l'altro povero. La parabola a poco a poco ricostruisce la verità in Davide che confessa: "Ho peccato contro il Signore".

"Contro di te, contro te solo ho peccato". L'espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figliol prodigo: "Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te". Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le sopercherie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col padre; nel suo rapporto con Dio. L'uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce il dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l'immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.

Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro a ogni uomo, a ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell'uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità.

Non viene, infatti, detto: ho peccato, sbagliato. Viene detto: "Contro di te ho peccato". La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell'uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente della colpa.

Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori. Le parole del salmo ci rivelano la differenza tra l'esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l'analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare. In questo salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l'uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell'uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: "Quello che è male ai tuoi occhi". Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato. progettato. Come è diversa questa realtà da quella dei cosidetti "pentiti" giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare le coscienze dal sangue versato. Il "pentito" dovrà ancora dire: "Il mio peccato mi sta sempre dinanzi". A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l'uomo totalmente diverso: "Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!"; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un'esistenza nuova.

Dobbiamo anche provare dolore per i peccati: "Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio". La parola dolore può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione. Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolore nel corpo, malgrado non lo voglia. Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierci il sonno.

Facciamo qualche riflessione generale. Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire. Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi, sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare. Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l'ho fatto e non l'approvo.

Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo. Sapere fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C'é da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se siamo pronti ad accusare gli altri e a scusare noi, riveliamo di non avere compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano. E d'altra parte è vero che il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra.

Più di frequente il pentimento è bloccato perché non siamo per nulla convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto; magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero. In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale. Ma allora che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi? E' chiaro che il cammino da compiere è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi a una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.

Ma ritorniamo al versetto 6 del salmo: "Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio".

Noi lo interpretiamo spontaneamente mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo. Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il Re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi. Nondimeno questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità d'appello. La realtà vissuta dal salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è la parte lesa. Egli, che è il principio di goni fedeltà e do ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono. Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare. E' propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell'uomo: l'uomo si trova davanti Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.

Se noi ci chiediamo in quale maniera l'offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli ci risponde con alcune parole dal Libro dell'Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosé, si costituisce parte lesa e inizia la sua azione contro l'oppressore con queste parole: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo" (Es.3,7-8).

Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: "In verità vi dico.....non l'avete fatto a me" (Mt.25,31-46).

C'é anche un brano del Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l'esperienza del dolore del peccato che abbiamo colto nelle parole di Davide. Si tratta dell'episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: "In quell'istante mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltandosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E uscito, pianse amaramente" (Lu.22,54-62).

Perché Pietro scoppia in pianto? Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po' annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato, di avere tradito un amico. Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento realizza una cosa sola: io ho rinnegato quest'uomo e lui va a morire per me! E' la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l'ha demeritata, che fa scattare il contrasto. Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall'incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l'uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia. La rivelazione della colpevolezza del cristiano viene dall'incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore di avere offeso Gesù nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l'infrazione del codice d'onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso.

Dopo la confessione della colpa, come abbiamo analizzato, il peccatore rinnova la domanda della purificazione interiore, che soltanto Dio può concedere, e che arrecherà la gioia di una vita nuova. I termini usati dal salmista per ottenere la purificazione si rifanno al rituale in uso nella liturgia ebraica.

In seguito, con la purificazione della colpa, il peccatore chiede a Dio che lo rinnovi interiormente e crei in lui un cuore puro e uno spirito saldo e generoso; perché possa perseverare nel bene. Non solo, egli si impegnerà per far ritornare altri peccatori sulla retta via, proclamerà la giustizia e la lode del Signore e offrirà a lui il sacrificio del suo cuore affranto e umiliato: sacrificio umile, ma certamente più gradito a Dio dell'olocausto di animali.

La preghiera si conclude con la speranza della ricostruzione delle mura di Gerusalemme e per la restaurazione del culto divino. Pare che la supplica finale sia stata aggiunta per l'uso liturgico dopo l'esilio, quando Israele implorava con questo salmo il perdono di Di sui suoi peccati. Intraprendiamo cari fratelli questo cammino quaresimale, con uno spirito contrito, e con animo sereno e deponiamo ai piedi della Croce tutti i nostri affanni che Maria Santissima, ci accompagni in questo tempo di grazia. Così sia!






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