Blog della Tradizione Cattolica Apostolica Romana

martedì 14 febbraio 2017

La posizione della Fraternità San Pio X nella situazione attuale


Intervista del portavoce ufficiale della FSSPX a S. E. Mons. Fellay
sulla situazione attuale della Chiesa e della Fraternità

Don Alain Lorans, direttore di DICI (l’organo di comunicazione ufficiale della Fraternità San Pio X), ha realizzato un’intervista della durata di un’ora a S. E. Mons. Bernard Fellay, Superiore generale della Fraternità. In quest’intervista, andata in onda sull’emittente radiofonica francese Radio Courtoisie il 26 gennaio, si ha modo di appurare, in modo esaustivo e ben più affidabile dei tanti commenti estemporanei e dichiarazioni sommarie che si trovano su giornali e siti internet, qual è la posizione ufficiale della Fraternità San Pio X riguardo alla situazione attuale della Chiesa, all’esortazione postsinodale Amoris lætitia, ai dubia dei cardinali e alle proposte recenti della Santa Sede per una regolarizzazione canonica della Fraternità. Dopo averne già pubblicato recentemente qualche estratto, proponiamo ora ai lettori la versione integrale dell’intervista.


Indice dell’intervista

1. La battaglia per la Tradizione, ieri e oggi

2. Una nuova aggressività degli Stati contro la legge naturale

3. Una sterilità da cui è affetta anche la Chiesa

4. I quattro cardinali, pubblicando i loro dubia su Amoris lætitia, hanno fatto un’opera di salute pubblica

5. Il Vaticano II e Amoris lætitia pongono lo stesso problema

6. Delle discussioni con Roma sono ancora utili

7. Il problema non è la struttura canonica, ma avere realmente la libertà di fare «l’esperienza della Tradizione»

8. «Noi vescovi siamo in molti a pensarla come voi»

9. Far arrivare il trionfo del Cuore Immacolato attraverso le nostre preghiere e penitenze



1. La battaglia per la Tradizione, ieri e oggi

Don Lorans: Lei che è Superiore generale della Fraternità San Pio X da oltre vent’anni, vede un cambiamento, cioè constata, da quando è a capo della Fraternità, qualche cambiamento nella Chiesa, nella Fraternità, nel mondo? È appena tornato dall’America del Sud… d’altronde, quali sono stati gli ultimi viaggi che ha fatto?

Mons. Fellay: Gli ultimi viaggi sono stati in primo luogo negli Stati Uniti per l’inaugurazione del nuovo seminario (poi ho anche partecipato, dall’altra parte degli Stati Uniti, sulla costa occidentale, ad un convegno); poi, nel mese di dicembre, c’erano le ordinazioni in Argentina, e ne ho approfittato anche per andare in Perù, per vedere un po’ come si sviluppano le cose a Lima, dove abbiamo una cappella. Questi sono stati i due ultimi grandi viaggi dell’anno scorso.

Don Lorans: E, per l’appunto, quale evoluzione constata negli ultimi vent’anni?

Mons. Fellay: Penso che ci voglia del tempo per vedere se una cosa cambia realmente. Il che significa che c’è una certa evoluzione, ma che è molto graduale e perciò, nella pratica, quasi impercettibile. Tuttavia credo che ci siano davvero dei cambiamenti, ma la battaglia è fondamentalmente sempre la stessa. Quindi certi elementi, come la battaglia considerata dal punto di vista delle idee, non sono cambiati. Ciò che invece è cambiato sono gli uomini: c’è una generazione che è passata, una parte di quelli che sono stati le prime leve di questa battaglia hanno ormai concluso il loro tempo su questa terra (certo non tutti, ma una parte); anche i più giovani – diciamo la mia generazione – hanno vissuto tutto questo, quando erano ancora giovani (all’epoca avevamo sui vent’anni), e quindi ci ricordiamo bene che l’atmosfera all’epoca era molto più aggressiva di oggi. Vi è, tuttavia, una nuova aggressività, che viene, questa volta, non dalla Chiesa: la Chiesa, potremmo dire, è in una fase di decadenza, per cui non si vede una grande, nuova aggressività (sono sempre un po’ i vecchi problemi che riemergono e ristagnano), bensì quest’aggressività si manifesta sul piano delle idee, sul piano dell’ideologia globale, decisamente sinistrorsa, che si diffonde in tutto il mondo e vuole imporsi. Penso che questo sia un fenomeno nuovo, o meglio, ripeto, le idee in quanto tali sono sempre le stesse, ma il tentativo di imporle diventa più aggressivo.



2. Una nuova aggressività degli Stati contro la legge naturale

Don Lorans: Ciò che si è visto in Francia, come ad esempio il matrimonio omosessuale, la teoria del gender, ecc., lei constata che si verifica in tutto il mondo?

Mons. Fellay: Sì, è un fenomeno universale.

Don Lorans: E i cattolici legati alla Tradizione si difendono, cercano di manifestare, di combattere contro queste ideologie?

Mons. Fellay: Mi sembra che i cattolici «tradizionalisti» in senso stretto non siano sufficientemente numerosi per costituire un movimento politico: un movimento di idee sì, senz’altro, ma per un movimento politico i numeri non bastano ancora. Su questo non c’è dubbio. Però ce ne sono altri – i «conservatori» – che si stanno mobilitando (più o meno a seconda dei paesi) e anche noi cerchiamo di aiutarli, di partecipare. È molto variabile in base ai diversi paesi. Anche noi siamo in questa battaglia, su questo non c’è dubbio, anche se non siamo sempre l’avanguardia. Da parte nostra, chiaramente, ci sentiamo avanguardisti anche in questa battaglia, in quanto ci facciamo sentire vigorosamente; ma bisogna sempre stare attenti a non restare chiusi in sé stessi: se guardiamo il fenomeno nel suo insieme, vediamo che siamo comunque pochi. Sul piano numerico non abbiamo un peso determinante, mentre sul piano dei princìpi sì: nella battaglia dei princìpi rappresentiamo un punto di riferimento solido, e penso che sia per questo che alcuni ci temono.

Don Lorans: Chi, esattamente? Chi ha paura della Tradizione?

Mons. Fellay: Molti! È un fenomeno molto vasto, che, senza ombra di dubbio, non riguarda soltanto quelli che un tempo venivano chiamati «progressisti», cioè questo mondo ecclesiale che ha voluto stravolgere la Chiesa in nome del Concilio Vaticano II. Questi ci sono, certo, sono ancora presenti, e quindi questa battaglia continua. Ma ci sono anche coloro che, in parte, hanno ispirato questi cambiamenti nella Chiesa, cercando di instillarli nella Chiesa. E questi ultimi sono sempre più veementi. Lo si constata, ad esempio, nel movimento della massoneria, che dirige queste idee moderne. Una cosa nuova, che fino a trenta o cinquant’anni fa non si conosceva o si conosceva appena, era il fenomeno delle cosiddette lobby (ad esempio la lobby omosessualista). Erano cose così poco conosciute che neppure se ne parlava. E ora, tutto d’un colpo, sono arrivati come un’ondata e cercano di farci credere che siano la maggioranza. Non penso che questo sia vero, ma è vero che hanno a disposizione i mezzi necessari per riuscire ad imporre tutte queste leggi che distruggono la società (in quanto distruggono le leggi stesse su cui fonda qualsiasi società, cioè quelle che costituiscono la legge naturale). Se continua così, il mondo morirà di sterilità… 

Don Lorans: Perché non ci saranno più figli?

Mons. Fellay: Esatto, perché non ci saranno più figli. C’è una ricerca del piacere personale e si perde di vista il bene comune, cioè un bene più grande, al di sopra di quello di ogni singolo individuo, ma al quale ogni singolo individuo è chiamato a contribuire – appunto per questo si chiama «comune» – e i cui frutti, poi, sono a vantaggio di ogni singolo individuo. Questo, però, presuppone che tutti vi prestino la loro collaborazione. Se, invece, si mette in primo piano il piacere personale, ci si distrugge e, in ultima analisi, si distrugge la società. Ed è appunto il fenomeno incredibile che si sta verificando sotto i nostri occhi. E penso che questo sia un fenomeno nuovo. Vent’anni fa era già in germe, certo, stava cominciando; quarant’anni fa forse non ancora. Il Sessantotto è stato senz’altro l’inizio vero e proprio di questo fenomeno, ma all’epoca questo era a stento percettibile; questo movimento antinaturale è venuto dopo, direi alle soglie dell’anno 2000, tra gli anni ’80 e gli anni ’90, con il cosiddetto New Age.

Nella sostanza si tratta sempre della stessa battaglia: la battaglia di chi è contro Dio, di chi rigetta qualsiasi legge che non sia di origine umana (che non venga dal «contratto sociale»), mentre in realtà non è necessario riflettere più di tanto per constatare che ci sono leggi in ogni campo: le leggi fisiche, ad esempio, non sono gli uomini che le hanno imposte alla natura; e, allo stesso modo, nella natura umana ci sono delle leggi che bisogna necessariamente seguire per svilupparsi. Tutto questo è normale, è la natura umana, senza ombra di dubbio. Se non le si vuole rispettare, è come in qualsiasi altra legge, come in qualsiasi manuale di istruzioni: se uno ha una macchina e non vuole rispettare il manuale di istruzioni, danneggia la macchina. In questo caso, si danneggia la «macchina umana», che si tratti del singolo individuo, della persona, della società…

E ci stiamo dirigendo davvero verso un’epoca molto particolare, un’epoca «antisocietaria», una sorta di dissoluzione della società, di perdita del bene comune e della prospettiva che esista una finalità nelle cose, che cioè ogni società persegue un fine, nonché di perdita del senso dell’autorità, della necessità di un’autorità che unifichi le diverse volontà per pervenire a questo fine. Di qui poi derivano la necessità della sottomissione a tale autorità e la necessità, per l’autorità stessa, di restare oggettiva, cioè di evitare l’arbitrarietà. Quando vediamo come si comportano oggi i governi, si ha l’impressione che ci siano oggi una quantità di valori assolutamente fondamentali che vengono dimenticati a vantaggio, ancora una volta, dell’individuo, di chi cerca di instaurare e mantenere solo il proprio potere. E questo lo si constata tanto nella società quanto nella Chiesa. Anche nella Chiesa – e questo è un fenomeno nuovo – stiamo assistendo ad un periodo di dissoluzione. Si sta verificando attualmente una sbalorditiva perdita dell’unità della Chiesa.



3. Una sterilità da cui è affetta anche la Chiesa

Don Lorans: Lei parlava poc’anzi di una società che sarà contrassegnata dalla sterilità, nel senso stretto del termine: niente più figli, niente più fecondità… Si ha l’impressione, allora, che si tratti di una specie di suicidio di questa società. E si spinge fino a dire che la Chiesa stessa ne sarebbe affetta. Si può dire che anche la Chiesa rischia una specie di suicidio, cioè che rischia di perdere fecondità, poiché non ci sono più vocazioni?

Mons. Fellay: Sì, senz’altro. Si può constatare che l’adozione dello spirito e delle idee moderne, che ha fatto il suo ingresso col Concilio (già in precedenza questa idee erano latenti, ma il Concilio le ha «integrate», in modo più o meno palese, certo, ma ad ogni modo sono entrate nella Chiesa con e grazie al Concilio), produce lo stesso risultato, in modo forse meno visibile, ma il risultato è quello: seminari vuoti, chiese vuote, conventi e congregazioni religiose in via di estinzione (quando non estinte tout court, come è il caso per parecchie di esse). Tutto questo è un fenomeno attuale ed è per l’appunto parallelo a quello che si verifica nella società. Analizziamone le cause. Fino ad ora, la Chiesa sembra ancora rigettare (a volte timidamente, a volte con vigore) questi attacchi contro la legge naturale. Quindi c’è ancora una battaglia tra il mondo e la Chiesa. I due fenomeni, dunque, non sono del tutto analoghi. Ma vanno comunque di pari passo. E non dobbiamo avere peli sulla lingua nel dire che questi cattivi frutti vengono appunto, in ultima analisi, da questo medesimo spirito che è lo spirito del mondo.

Si tratta di uno spirito di indipendenza nei confronti di Dio, uno spirito che si vuole liberare del giogo della legge di Dio, di tutto ciò che gli appare troppo rigido o troppo difficile, che non vuol più saperne di spirito di sacrificio. Questa è una delle caratteristiche della Chiesa moderna: si toglie il Crocifisso dalle croci, spesso sulla croce non è più raffigurato Nostro Signore, non si vuole più vedere quest’uomo sofferente. Lo si vuole vedere resuscitato, e poi… alleluia e basta così. Ma il mondo, intendo dire il mondo nel quale viviamo, resta comunque un mondo di sofferenze. E sapere che il Signore ha voluto condividere le nostre sofferenze (e non soltanto per alleviarle, ma per salvarci, per dare un valore redentivo a queste sofferenze), Dio sa se ne abbiamo bisogno! Tutto questo, però, lo si è voluto eliminare a vantaggio di una nuova mistica, la «mistica pasquale» (il «mistero pasquale»: ci si domanda cosa voglia dire esattamente…), che di fatto è piuttosto una mistificazione. Un tempo le cose erano semplici: c’era il venerdì santo, Nostro Signore è morto – per noi e per la nostra salvezza – e poi è risuscitato perché è Dio. Era vero uomo – e come tale è morto – ed era vero Dio, e come tale non poteva morire e si è risuscitato, appunto perché è Dio. Adesso, invece, si vuole dimenticare la morte; si vuole dimenticare la necessità di passare per la morte, per la mortificazione… 

Don Lorans: Si vuole andare direttamente alla domenica di Pasqua e “bypassare” il venerdì santo?

Mons. Fellay: Esatto, sì. E quel che è interessante è che, nell’economia della salvezza (cioè nel «regime» sotto il quale noi viviamo per poter arrivare alla salvezza), per pervenire alla vita eterna dobbiamo morire. Ed è appunto questo che non si vuole più. Si pretende di arrivare alla vita senza morire. Ed è esattamente questo il grande problema della Chiesa moderna.

Don Lorans: Cioè che rifiuta il fatto che «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24)?

Mons. Fellay: Esatto. È proprio così. È questo il problema della Chiesa moderna.

Don Lorans: E così il chicco di grano resta solo e non porta frutti. Diventa sterile.

Mons. Fellay: Esatto, non porta frutto ed è sterile. Appena un vescovo conservatore apre un seminario nel quale mette un po’ di ordine ed esige un po’ di disciplina, lo riempie. Sono pochi i vescovi che lo hanno capito, la maggior parte non vuole saperne, vogliono restare in questa sterilità. Personalmente sono convinto che non si rendono conto del motivo per cui la cosa non funziona. Eppure è molto semplice da capire.

Don Lorans: Diceva che c’è questo rifiuto del sacrificio. Negli ultimi anni si è parlato molto della famiglia, specialmente in occasione del sinodo sulla famiglia. L’esortazione postsinodale Amoris lætitia fa molto parlare di sé. Si può dire che questo problema si inserisce nell’ambito dello stesso fenomeno, cioè di quello del rifiuto dell’autorità, della crocifissione di Cristo e dello spirito di sacrificio?

Mons. Fellay: Penso che questo non avvenga per partito preso. In effetti assistiamo ad un fenomeno molto particolare. Mi spiego: ciò che vedo nell’attuale Papa, Francesco, è un’attenzione per le anime, ma in particolare per le anime «reiette», cioè le anime abbandonate, che si trovano messe da parte, disprezzate, o semplicemente in difficoltà… quelle che chiama le «periferie esistenziali». Si tratta realmente della cosiddetta pecorella smarrita? Papa Francesco mette in secondo piano le novantanove pecore, pensando che sono già dove devono essere, per occuparsi della pecorella smarrita? È possibile che questo sia ciò che ha in mente. Ripeto: è possibile, non pretendo di dare una risposta assoluta; però da tutto ciò che ha detto si constata che c’è in lui questo interesse e che è universale, nel senso che non si preoccupa solo della fede, ma… dei senzatetto, degli immigrati, dei carcerati, ecc. Ed è vero che questi sono uomini abbandonati dagli altri. Ma è un tipo di approccio che non presuppone necessariamente la fede: non c’è bisogno di avere la fede per constatare che queste persone sono delle anime in pena. Poi ci sono i divorziati: anche loro sono anime in pena. E poi ci siamo noi: anche noi siamo, in un certo senso, dei reietti. E così finiamo col ritrovarci tutti un po’ nella stessa prospettiva, cioè questa prospettiva dei reietti della compagine comune. E il Papa vuole occuparsi appunto di queste anime, vuole cercare di fare qualcosa per loro. Il problema è che una buona parte di queste anime in pena si trovano in questa situazione perché, in un modo o nell’altro, si sono opposte alla legge.

Quindi abbiamo un Papa che non è a suo agio con la legge, nella misura in cui la legge, diciamo così, ha fatto del male ad una parte dell’umanità; e cerca perciò di vedere se non vi sia il modo non di eliminare del tutto la legge – non penso che sia questa la sua idea – ma di dire: «D’accordo, forse sono fuorilegge, ma in un senso diverso da quello abituale, e ci può essere un cammino anche per loro». Dicendo questo, lo ripeto, sto solo tentando di capire ciò che cerca di fare papa Francesco: e non è una cosa facile.


4. I quattro cardinali, pubblicando i loro dubia su Amoris lætitia, hanno fatto un’opera di salute pubblica

Don Lorans: È una cosa talmente difficile che ci sono dei cardinali che hanno messo per iscritto i loro dubbi e dicono che Amoris lætitia pone dei grandi problemi dottrinali.

Mons. Fellay: E hanno ragione! Guardiamo anche solo il modo in cui è redatta (ed è questo il problema attuale): apre delle «zone grigie». Il Papa dice che non ci sono solo il bianco e il nero, ma che c’è anche il grigio. Il punto, però, è che la legge è fatta per dire le cose in modo chiaro e deve quindi necessariamente stabilire un «bianco» e un «nero», un «sì» e un «no». Dopo di che, è vero, nella realtà di tutti i giorni ci può essere anche il grigio, perlomeno quando si tratta di leggi ecclesiastiche. Si deve infatti distinguere la legge di Dio dalle leggi della Chiesa: Dio ha previsto tutto, perciò quando stabilisce la Sua legge conosce tutte le circostanze, tutte le situazioni possibili e immaginabili, e quindi la legge di Dio non ammette eccezioni. Ad esempio, i dieci comandamenti non ammettono alcuna eccezione. Invece nella legge umana (anche nelle leggi fatte dalla Chiesa, le cosiddette leggi ecclesiastiche), poiché l’uomo non ha questa infinita saggezza di Dio, la Chiesa sa che ci potranno essere delle circostanze nelle quali, se la sua legge fosse applicata alla lettera, sarebbe di detrimento alle anime, e quindi si farà un’eccezione. Possiamo dire che, restando in questa terminologia del bianco e del nero, questo è il grigio. Perciò, quando si tratta di leggi della Chiesa, la Chiesa sa fare delle eccezioni, e anche in modo molto largo: è meraviglioso vedere fino a che punto la Chiesa è pronta a fare, anche con facilità, delle eccezioni. Tuttavia, è bene ripeterlo, la legge di Dio invece non ammette eccezioni. 

Don Lorans: Ecco, per l’appunto, la questione dei «divorziati risposati», la questione della possibilità per loro di accedere alla comunione, riguarda la legge di Dio o la legge della Chiesa?

Mons. Fellay: È legge di Dio. Nostro Signore stesso si è espresso esplicitamente su questo tema, potremmo dire perfino sul caso preciso, poiché san Paolo lo dice esplicitamente. E quando si cita san Paolo ci si deve sempre ricordare che san Paolo in questo caso non è altro che uno strumento di Dio, quindi trasmette la Parola di Dio. Non si tratta di san Paolo come uomo, ma è Dio che parla attraverso san Paolo, è la Sacra Scrittura, non parla semplicemente “in nome di Dio”, ma è veramente Dio che parla per mezzo di lui. Quindi questa legge è chiara, non vi è alcuna «zona grigia» possibile: colui o colei che si è separato dal suo coniuge e vive more uxorio con qualcun altro – è Gesù stesso che lo dice – commette adulterio. C’è una rottura della parola data, cioè della promessa di fedeltà fatta al momento del matrimonio. E, nella misura in cui questa unione è di dominio pubblico, si tratta di un peccato pubblico: anche qualora non ne siano a conoscenza molte persone, rientra nell’ambito delle cose pubbliche, e per questa ragione è un peccato ancora più grave a causa del cattivo esempio e dello scandalo dato agli altri. Ed è per questo che il Signore e, al suo seguito, la Chiesa ha preso delle disposizioni molto severe. Un pubblico peccatore, ad esempio, di per sé non ha il diritto alla sepoltura in un cimitero religioso. La Chiesa è quindi molto severa, ma è normale, perché in questo caso si tratta di proteggere gli altri, quelli che non si trovano in questa situazione.

Il problema nel quale ci troviamo oggi è che un certo numero di vescovi e di sacerdoti per anni, anzi per decenni, hanno benedetto personalmente queste false unioni. Il Vaticano stesso è dovuto intervenire, in Francia, per proibire questi rituali, che però continuano lo stesso. Questo me lo hanno detto personalmente a Roma: sono dovuti intervenire. E per intervenire Roma, vuol dire che la cosa era già abbastanza diffusa. Ci sono sacerdoti e vescovi che hanno benedetto delle persone che vivevano nel peccato! E dopo gli si dovrà negare la comunione? Non avrebbe senso. È tutto logico. Ma è una logica di peccato, ed è grave, molto grave.

I testi, di per sé, non aprono in modo così esplicito a questa prospettiva. Il testo di Amoris lætitia non dice esplicitamente: «A partire da adesso si può dar loro la comunione». Il meccanismo è molto più abile: si aprono delle porte senza varcarle, ma lasciandole varcare ad altri. E questo è grave. Là dove c’era prima una chiara distinzione tra il bene e il male, si apre ora una zona grigia. Che però in realtà non esiste.

Poi si aggiunge: in questa zona grigia si rimette ognuno alla propria coscienza. Ma questo è errato. Perciò i cardinali che sono intervenuti hanno fatto, possiamo dirlo davvero, un’opera di salute pubblica e di estrema importanza. Peccato che siano così pochi… ma questo penso dipenda dalla debolezza umana. Da fonti sicure sappiamo che in realtà sono molto più numerosi, ma quelli davvero coraggiosi si contano sulle dita della mano.



5. Il Vaticano II e Amoris lætitia pongono lo stesso problema

Don Lorans: Il cardinale Burke ha detto che si potrebbe prendere in considerazione una sorta di correzione fraterna da parte dei quattro cardinali nei confronti del Santo Padre, ma recentemente il cardinale Müller, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha detto che in Amoris lætitia la fede non è in questione e perciò non bisogna mettere tutto questo sulla pubblica piazza. Lei cosa ne pensa?

Mons. Fellay: Mi sembra che questo sia un’ottima illustrazione del problema nel quale ci troviamo – intendo dire noi, la Fraternità – relativamente alle nostre obiezioni nei confronti del Concilio. Penso che si tratti, in un certo qual modo, dello stesso problema. Il problema si situa su piani diversi. C’è il piano della battaglia dei princìpi e poi c’è un secondo piano, quello delle persone che diffondono tali princìpi. E si verifica una sorta di «va e vieni» tra questi due piani. Ci sono persone che vedono il problema, ma non osano parlarne o, per varie ragioni, non hanno il coraggio di abbordarlo. E tra queste vanno fatte delle ulteriori distinzioni: non hanno il coraggio di abbordarlo perché c’è il noto principio per cui la Chiesa è assistita dallo Spirito Santo, cioè è lo Spirito Santo che governa la Chiesa attraverso il suo capo visibile, e lo Spirito Santo non si può sbagliare, e così si applica l’inerranza dello Spirito Santo al Vicario di Cristo. Poi, per mancanza di distinzioni e di profondità, forse anche per superficialità o perché è più facile, si comincia a dire: «Tutto ciò che fa il Papa è buono». Quindi nulla di ciò che fa può essere cattivo. Deve essere buono. Ciò che dice non può essere errato e quindi deve essere vero. Queste sono le risposte che ci sono state date in merito al Concilio. Ancora oggi alcuni ce lo rimproverano, dicendoci che non si può essere contro il Concilio perché è un Concilio della Chiesa, perché c’è lo Spirito Santo, quindi è buono, punto e basta. Noi invece diciamo che ci sono comunque dei problemi. Allora ci si risponde: «Sì, effettivamente alcuni hanno interpretato questo Concilio in modo errato. Ma non è il Concilio stesso ad essere errato». Dal canto nostro, noi replichiamo: «Certo, ma lo hanno interpretato così basandosi sui testi, e questi testi erano ambigui».

Anche i nostri interlocutori a Roma lo ammettono: «Sì, è vero, alcuni testi sono ambigui». Anche Benedetto XVI, nel suo famoso discorso alla Curia romana prima del Natale 2005, lo ha riconosciuto: «Sono stati emanati dei testi ambigui per giungere ad una più grande maggioranza, ad un consenso maggiore». E aggiungono che un cattolico non ha il diritto di leggere questi testi in un modo diverso da quello cattolico, quindi deve eliminare da sé ogni possibilità di interpretazione contraria a ciò che la Chiesa ha già insegnato e contraria alla fede. In teoria questo è vero, è verissimo, ed è ciò che diciamo anche noi. Questo è proprio il criterio che mons. Lefebvre ci ha dato relativamente al Concilio: tutto ciò che, nel Concilio, è fedele alla Tradizione, noi lo accettiamo; ciò che è dubbio e ambiguo, lo accettiamo nella misura in cui lo si può comprendere come la Chiesa lo ha sempre insegnato. E sulla scorta di mons. Lefebvre continuiamo dicendo che c’è, tuttavia, anche una terza categoria di testi che non sono soltanto ambigui, ma realmente erronei. E in questa categoria di testi, poiché si oppongono a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato (infatti qui non si tratta del nostro proprio giudizio personale: non siamo protestanti; la Chiesa ha già parlato di queste cose e condannato un certo numero di errori), tutto ciò che la Chiesa ha condannato, noi continuiamo a condannarlo, appunto perché è la Chiesa che lo ha fatto.

Ecco la nostra posizione. Noi diciamo: «In teoria, affermare che l’unico modo cattolico di leggere il Concilio è di leggerlo alla luce della Tradizione, è esatto, è proprio così». Ma il problema è che, una volta ammesso questo principio, ci viene detto: «È così, e dunque tutti lo leggono in modo cattolico». Allora noi replichiamo nuovamente: «Ma aprite gli occhi, guardatevi intorno! Non è questa la realtà. In teoria dovrebbe essere così, ma in realtà c’è un problema immenso. La realtà è diversa». È quel che si constata con Amoris lætitia. Da una parte c’è il cardinale Müller che dice: «Questo testo non si oppone alla fede», nel senso che lo si può leggere in modo cattolico, anzi, non soltanto che lo si può, ma che lo si deve leggere in modo cattolico, e quindi quelli che non lo leggono in modo cattolico sono nell’errore (questo non lo dice così chiaramente, perché se lo dicesse, farebbe allusione al suo superiore… Nelle sue parole c’è un «non detto» molto importante). E, dall’altra, i quattro cardinali hanno segnalato, a giusto titolo, questa ferita aperta in una dottrina che fino a quel momento era chiara, davvero chiarissima. In effetti si è aperta una porta in direzione dei «divorziati risposati» che non si aveva il diritto di aprire. Ecco tutto. Perciò, quando il cardinale Müller dice: «Non si è aperta nessuna porta, non si è usciti dalla legge divina»… ufficialmente no, è vero, ma diverse conferenze episcopali, dal canto loro, questa porta hanno già indicato come varcarla.

Don Lorans: E in un senso lassista?

Mons. Fellay: Indubbiamente. Altri invece (come i vescovi polacchi), ringraziando il Cielo, in un senso cattolico. E allora cosa succede? Succede quello che è appunto la situazione attuale, la situazione reale. La fede e la morale, per un cattolico, sono sullo stesso piano. L’infallibilità della Chiesa e del Papa si estende ad entrambe (nella misura in cui vuole impegnarla). E l’insegnamento della Chiesa è sempre stato questo: non si può dare la comunione a una persona che si trova in stato di peccato. È molto semplice. Quindi a chi vive in concubinato, cioè in un’unione more uxorio che comporta uno stato di peccato abituale, non si ha il diritto di dare la comunione.

L’unica «zona grigia» (che però in realtà non è veramente tale) può consistere nel dire che, nella misura in cui queste persone vivono non più more uxorio, bensì come fratello e sorella (e oggi ci possono essere situazioni molto complicate, con tutte queste famiglie ricostituite, con bambini di entrambi i coniugi, ecc.), in ragione di un bene più grande da tutelare, come il bene dei bambini, si è costretti a tollerare che queste due persone vivano sotto le stesso tetto. In tal caso le si avvisa: «Per andare in Paradiso, c’è un’unica possibilità, ed è di vivere lontani dal peccato. Perciò dovete vivere come fratello e sorella». Dunque non nella stessa camera e senza condividere lo stesso letto. Certo sarà complicato, sarà difficile, ma così facendo vivranno lontani dal peccato. E, in modo discreto e non pubblico, si potrà anche dare loro la comunione. Ma occorre che ci sia questa certezza di una vita comune come fratello e sorella, bisogna essere onesti. Si tratta del Signore, e il Signore sa tutto. Si possono ingannare gli uomini, ma non il Signore. Ricevere la comunione è un atto nel quale si manifesta la propria unione al Signore e il fatto che si è in pace con lui. Per questo, se si è in stato di peccato grave, ci si deve confessare prima di ricevere Nostro Signore. Se si è «a posto» con il Signore, allora sì, si può ricevere la comunione. Ma quanti, di tutti quelli che si trovano in questo stato di «divorziati risposati», vivono come fratello e sorella? Ce ne sono, ma senz’altro non sono la maggioranza.

Perciò cominciare a fare delle leggi per queste situazioni particolari, voler stabilire una cosa del genere come se fosse una situazione generalizzata, significa mettere il carro davanti ai buoi. È come se, sulle strade, a contare per la legiferazione fossero non le macchine guidate correttamente, ma quelle che fanno incidenti. E invece no, le leggi si fanno perché le macchine siano guidate correttamente e non perché si scontrino. Tutte le leggi sono fatte per evitare che si scontrino. Fare il contrario, quindi, significa quindi invertire le cose, rendere il particolare universale. Si tratta di un’inversione del giusto ordine e questo, nella battaglia dei princìpi, è una cosa gravissima.



6. Delle discussioni dottrinali con Roma sono ancora utili, oggi?

Don Lorans: All’inizio lei diceva che la battaglia dei princìpi è sempre la stessa, e l’anno scorso, a seguito del suo incontro con papa Francesco, ha dichiarato che le discussioni dottrinali sarebbero proseguite, che dei vescovi avrebbero visitato i nostri seminari e che ci sarebbero state delle discussioni su questioni come la libertà religiosa, l’ecumenismo, la nuova Messa. Queste discussioni stanno continuando? E, alla luce di tutto ciò che ha appena detto, pensa che servano realmente a qualcosa?

Mons. Fellay: Sì, le discussioni stanno continuando. C’è stata una pausa, che però era nell’ordine normale delle cose, quindi riprenderemo, continueremo queste discussioni. La cosa più interessante è che sia Roma che noi lo vogliamo, vogliamo queste discussioni. Forse non proprio per lo stesso scopo, ma mi sembra che alla fine ci intendiamo comunque. E perché? Perché per noi è molto importante, e lo accennavo già all’inizio, quando dicevo che abbiamo difficoltà con certe affermazioni del Concilio (non personalmente, ma perché queste affermazioni si oppongono a ciò che la Chiesa ha detto e fatto, all’insegnamento e alla prassi della Chiesa). Questo è il nostro problema. Se, da una parte, si insiste giustamente nel dire che la Chiesa è infallibile, dall’altra si deve risolvere questo problema. Se è infallibile, come può, tutto d’un tratto, contraddirsi? Quindi ci sono dei problemi gravi, che non possono essere risolti semplicemente facendo appello all’autorità, cioè non ci si può accontentare di dire che è l’autorità che parla e quindi amen: Roma locuta, causa finita. No. Certamente tale autorità – questo lo riconosciamo senz’altro – può usufruire dell’infallibilità, che è un privilegio straordinario concesso dal Signore, ma vi è una condizione. E questa condizione è che l’autorità insegnante si ricolleghi al depositum fidei, cioè ad un insieme di verità ad essa affidate dal Signore. L’autorità non può decidere arbitrariamente cosa le piace e cosa no del depositum fidei. Non funziona così. Questo è il grande problema noi poniamo a Roma in merito alle questioni relative al Concilio.

Don Lorans: Nelle sue risposte precedenti si può constatare la sua opposizione frontale ad Amoris lætitia, che introduce confusione là dove prima c’era chiarezza. In questo contesto, le discussioni dottrinali hanno una qualche utilità?

Mons. Fellay: Sì, sono utili. Forse non nell’immediato; a lungo termine, però, sono comunque le idee a dirigere le azioni dell’uomo. Un errore ha conseguenze tragiche nella vita degli uomini, soprattutto un errore dottrinale. Nel caso di un errore morale, poi, la conseguenza si vede ancora più rapidamente. Se si tratta di un errore dottrinale puro, l’effetto si vede solo in via consequenziale: se uno nega la Trinità, ad esempio, non se ne vedono immediatamente le conseguenze pratiche, cioè in quale ambito pratico si verificherà un errore morale che ne sarà la conseguenza, ma alla fine questo avverrà comunque. È straordinario vedere come tutto è collegato. La fede è un po’ come un tessuto: tutte le maglie devono essere unite. Se ci si lascia sfuggire una maglia, si sfilaccia tutto il tessuto e alla fine non resta più niente. Ecco perché conservare, nella situazione di confusione nella quale ci troviamo, questi grandi princìpi, rammentarli, anche semplicemente rammentarli, è già una cosa molto importante. Non se ne vedrà l’effetto nell’immediato; ma sul lungo termine saranno questi princìpi ad affermarsi, ad imporsi. Questo, però, presuppone che non si smetta di lottare.

E dunque, in questo senso, il fatto che Roma sia d’accordo che si discuta, per me è di capitale importanza. Anzi, non soltanto sono d’accordo, ma addirittura ci dicono: bisogna discutere. E anche sotto questo profilo c’è qualcosa di nuovo adesso, da circa un paio d’anni. È una nuova posizione che si sta affermando: Roma, nelle sue discussioni, non cerca o non cerca più di imporci quest’orientamento moderno nelle questioni dell’ecumenismo, della libertà religiosa, di Nostra ætate, e perfino della riforma liturgica. Cioè i quattro punti che da oltre quarant’anni sono i nostri grandi cavalli di battaglia. Adesso, ad un tratto, ci viene detto: «Sì, effettivamente bisogna discutere su questi punti». Da una parte, si riconosce che ci sono stati degli errori, degli abusi, degli eccessi; non si giunge fino a dire che è il testo conciliare stesso ad essere erroneo, ma si riconosce che c’è qualcosa di erroneo. Si riconosce che ci sono delle ambiguità da eliminare. E Roma ci dice esplicitamente: «Queste discussioni ci aiuteranno a eliminarle». Fungono un po’ da catalizzatore, per cercare di purificare questo magma di idee astruse, erronee, ambigue, confusionarie. E questa è un’ottima cosa.

Ma c’è un altro elemento che mi ha positivamente colpito e di cui sono molto felice. E mi auguro di poter constatare – spero, infatti, che un giorno questo si verificherà – che ciò che sto per dire sia realmente non soltanto il pensiero di una o due persone, ma qualcosa che comincia ad imporsi come linea ufficiale della Chiesa. Questa novità può essere riassunta con una breve frase di mons. Pozzo, che è il nostro interlocutore a Roma, il segretario della commissione Ecclesia Dei: mons. Pozzo ci ha detto che questioni come l’ecumenismo, la libertà religiosa, perfino la riforma liturgica e Nostra ætate non costituiscono dei «criteri di cattolicità». Cosa significa l’espressione «criteri di cattolicità»? Significa: «degli elementi ai quali è assolutamente necessario aderire per essere cattolici». In altri termini, se questi punti non sono dei criteri di cattolicità, si ha il diritto di pensare e di dire qualcosa di diverso, senza che ciò comporti che non si è più cattolici. E questo mons. Pozzo lo ha affermato pubblicamente. Si tratta di una cosa estremamente importante.

A mio avviso si assisterà, almeno per qualche tempo, ad un dibattito causato dalla nostra situazione. Sarà un dibattito pubblico o avverrà dietro le quinte? In ogni caso il dibattito esiste già. Un dibattito con gli ultraprogressisti, cioè coloro ai quali papa Benedetto XVI rimproverava di voler fare del Vaticano II un «superdogma» e che vorrebbero realmente imporre queste cose alla Chiesa come assolutamente obbligatorie. Per loro, infatti, queste cose rappresentano la Chiesa di oggi, costituiscono il loro fondamento per la Chiesa di oggi. E d’un colpo si afferma: «No, non si è tenuti ad aderire a queste cose per essere cattolici». Questo è, con ogni evidenza, di capitale importanza. È una grande battaglia. Se si guarda tutto ciò sotto il profilo della battaglia dei princìpi, si tratta di una cosa estremamente importante. E, appunto per questo, ci sono delle voci che cominciano a levarsi un po’ dappertutto e che dicono che non è possibile, che è impensabile «far passare» la Fraternità con tali criteri. Staremo a vedere…



7. Il problema non è la struttura canonica, ma avere realmente la libertà di fare «l’esperienza della Tradizione»

Don Lorans: A proposito di «far passare» la Fraternità: c’è una proposta canonica da parte di Roma (si è parlato di una prelatura personale), e recentemente mons. Schneider ha dichiarato di averla invitata a non tardare ad accettare questa proposta canonica, senza aspettare la perfezione. Ha ricevuto effettivamente tale invito? E, in tal caso, un accordo dottrinale verrebbe messo in secondo piano? Qual è esattamente la posizione della Fraternità su questo punto?

Mons. Fellay: Effettivamente mons. Schneider mi ha scritto, ma circa un anno fa, mi sembra. Quindi non ho ricevuto da lui una comunicazione recente. Ma il problema non consiste nella struttura canonica. La struttura penso sia ben concepita; c’è magari qualche punto, diciamo qualche dettaglio da rifinire. Essenzialmente è adatta, adeguata ai nostri bisogni. Per questo sono soddisfatto. Ripeto, ci sono dettagli che hanno bisogno di miglioramenti e questioni che devono essere ancora discusse, ma il problema non è la struttura che ci viene proposta. Se quello fosse il solo problema, diremmo subito di sì. Ma il problema non è questo. Il problema è la battaglia dei princìpi. Una Chiesa che per quarant’anni ha imposto una linea, cioè questa linea modernista contro la quale combattiamo e a causa della quale siamo stati dichiarati scismatici, fuori dalla Chiesa e quant’altro… questa Chiesa è disposta o no a lasciarci continuare il nostro cammino? Mons. Lefebvre era solito dire: «Lasciateci fare l’esperienza della Tradizione». Il problema è tutto qui: ce la si lascerà fare, l’esperienza della Tradizione? Oppure ci aspettano al varco, per dirci un domani che dobbiamo accettare ciò contro cui combattiamo da quarant’anni? In questo non intendiamo cedere.

Con questo nuovo atteggiamento più aperto, con il quale ci viene detto che i problemi che noi solleviamo non sono criteri di cattolicità, sembra aprirsi una strada. È solo una porta oppure una strada realmente percorribile? Ed è una strada sicura? Potremo realmente continuare ad agire come abbiamo fatto finora? Dal canto nostro, ovviamente, noi non consideriamo questo come la fine della battaglia: l’errore rimane errore. Quindi restiamo convinti, oggi come ieri, che ci sono degli errori che sono stati diffusi nella Chiesa e che la stanno uccidendo. Ovviamente siamo perfettamente consapevoli che ci vuole tempo per purificare e rimuovere questi errori. Questo è chiaro. Gli uomini non cambiano di punto in bianco. Si sono prese molte cattive abitudini. Non fosse altro che per far tornare una liturgia veramente sacra, ci è chiaro che questo non si può fare in un giorno.

Ma la domanda è: c’è almeno la volontà di scostarsi da questa linea ufficiale che è stata imposta al Concilio? Sotto questo aspetto si constata che le autorità – perlomeno le autorità ufficiali, quelle che tengono le redini del comando – dicono: «No, noi continuiamo sulla stessa linea». E noi, allora, restiamo dei «fuorilegge»? Dei «fuorilegge tollerati»? Potremmo dire – cosa tanto più sorprendente sotto papa Francesco – che siamo anche più che tollerati. Ma comunque marginalizzati. E allora: le cose resteranno come sono? Oppure ci saranno progressi? O magari un domani ci si vuole assorbire in questo processo che, lo ripeto, sta uccidendo la Chiesa? Il problema è tutto lì. E finché questo problema non viene risolto in modo sufficientemente chiaro, non si può avanzare.



8. «Noi vescovi siamo in molti a pensarla come voi»

Don Lorans: All’inizio dell’intervista ha detto che le cose sono un po’ cambiate, gradualmente. Tra questi cambiamenti si può annoverare l’attitudine del cardinale Burke, di mons. Schneider e dei vescovi polacchi, che lottano contro un’interpretazione lassista di Amoris lætitia. Lei ha personalmente contatti con dei vescovi che le dicono: «Benché siate “fuorilegge” e marginalizzati, per noi voi fate un lavoro importante, perché neppure noi vogliamo contribuire al suicidio della Chiesa»? Affermazioni del genere sono solo un sogno o sono la realtà?

Mons. Fellay: Abbiamo dei contatti, sì, ne abbiamo. E questi contatti sono anche in aumento. Naturalmente non costituiscono la maggioranza. Ma comunque ne abbiamo. E questo è un elemento molto importante in questa battaglia. Forse nei nostri ambienti questo fenomeno non viene molto percepito, perché è discreto. La gente vede che le cose vanno male e finisce lì, grosso modo. Si ha difficoltà a percepire un’altra cosa che tuttavia è davvero reale e che, a mio avviso, si afferma ogni giorno di più, e cioè che c’è, in un certo numero di persone, una volontà di rinnovamento, di ritorno alla Tradizione, per l’esattezza. E così c’è una certa quantità di personalità ecclesiastiche che – magari non così fortemente come noi, non così pubblicamente come noi, ma sul piano dei princìpi non meno fortemente di noi – contestano il nuovo corso. Questo fenomeno esiste.

Di recente ho incontrato un vescovo che di sua propria iniziativa – infatti non ha mai celebrato la Messa antica, l’ha scoperta al momento del motu proprio di Benedetto XVI, si è interessato alla questione e l’ha studiata – mi ha detto che, con la nuova Messa, si è toccata «la sostanza del rito». Ecco un vescovo che giunge a questa conclusione. Un vescovo onesto, semplicemente. E chiaramente ne trae delle conclusioni, delle conseguenze per sé e per la sua diocesi. E non è il solo. Ho ricevuto ad esempio anche una lettera da un altro vescovo, che mi scrive: «Non mollate!». Intendeva dire su tutti questi punti: libertà religiosa, ecumenismo, Nostra ætate, le relazioni con le altre religioni (quando si dice «Nostra ætate» si fa riferimento non solo agli ebrei, ma anche ai musulmani, ai buddisti, agli induisti… insomma a tutte le religioni non cristiane: è un campo molto vasto). E nella sua lettera questo vescovo aggiunge: «Noi siamo in molti, nella gerarchia, noi vescovi siamo in molti a pensarla come voi». Ovviamente non lo dicono pubblicamente, perché si farebbero fare fuori. E tuttavia riflettono, vedono la situazione. E, di fatto, queste persone contano su di noi, un po’ come – uso ora un termine un po’ moderno, ma cercando di utilizzarlo in modo corretto – un po’ come una testimonianza. Per usare un termine forse più tradizionale, un po’ come un faro (anche se, ovviamente, il nostro scopo non è mettere noi stessi in primo piano). Da noi si aspettano semplicemente che manteniamo viva quella luce che è sempre stata quella della Chiesa, quella luce che, nei nostri ambienti, è rimasta accesa. Contano molto su questo. Ci dicono: «Siete voi ad essere bastonati, ma noi vi sosteniamo. Siamo con voi».

Don Lorans: Tra i vescovi che vi dicono: «Non dovete cedere in niente sull’ecumenismo, sulla liturgia, sulla libertà religiosa…», ci sono anche dei vescovi francesi?

Mons. Fellay: Sì, ce ne sono, anche se non sono così espliciti. Ma ce ne sono. È interessante constatarlo. È, anche questo, un fenomeno universale. Ce ne sono in tutti i paesi (dove più, dove meno, ovviamente). C’è una certa quantità di vescovi – sebbene non enorme – che stanno rivedendo un buon numero di cose. Però si trovano in un sistema ancora attaccato a queste cose e che quindi rende difficile una reazione, in quanto questo crea immediatamente delle reazioni esplosive, difficili da controllare. Quando si pensa a come reagire, a come ristabilire l’ordine, sorgono molti problemi. È chiaro che, ad un certo punto, questo dovrà venire dall’alto. E finché dall’alto non ci si applica a questo ristabilimento dell’ordine, ogni reazione sarà fonte di conflitti. Noi, certo, tutto questo lo ripetiamo da cinquant’anni, ma prima o poi il Signore farà in modo che sia l’autorità suprema a mettersi alla testa di questo movimento. E fino a quel momento bisognerà tenere duro. Certo, è una posizione prudenziale, finalizzata a far portare alla nostra posizione quanto più frutto è possibile. Il che non corrisponde necessariamente a: gridare quanto più è possibile. Anche questo concetto deve essere compreso, è di estrema importanza.


9. Far arrivare il trionfo del Cuore Immacolato attraverso le nostre preghiere e penitenze 


Don Lorans: Lei dice che bisogna tenere duro e ha chiesto ai sacerdoti e ai fedeli di essere autenticamente devoti alla Madonna, in questo 2017. In occasione del centenario delle apparizioni di Fatima, ha lanciato una «crociata del rosario». Questa richiesta di preghiere più ferventi fa parte della battaglia di cui ha delineato le grandi linee nel corso di quest’intervista?

Mons. Fellay: Senza ombra di dubbio fa parte di questa grande battaglia. E comporta anche un elemento che non bisognerà mai dimenticare, e cioè che la Chiesa non è umana. Ha una parte umana, certo, perché è composta da uomini; ma sostanzialmente, nella sua natura, nella sua essenza è soprannaturale. Ha degli elementi – e degli elementi fondamentali – che trascendono l’uomo, le sue capacità, le sue riflessioni e i suoi mezzi. Per il bene della Chiesa e quindi, in quanto membri della Chiesa, anche per quello nostro, se vogliamo il bene della Chiesa dobbiamo necessariamente fare appello a questi mezzi soprannaturali. Questo è l’unico metodo per affrontare questa battaglia nel modo giusto. E questa battaglia richiede di fare appello innanzitutto al Signore stesso e ai suoi santi. La Madonna ha fatto capire (secondo me in modo inequivocabile) che l’epoca in cui viviamo è la sua epoca e questo per volontà espressa del Signore. Bisogna ricorrere a lei, bisogna ascoltarla e mettere in pratica ciò che ci chiede. E cos’è che ci chiede? «Preghiera e penitenza: dite il rosario tutti i giorni». Questo è più che mai di attualità. A mio modo di vedere, nella situazione che stiamo vivendo siamo in pieno messaggio di Fatima. Ci sono delle cose che non sono state dette, ma alla fine vedremo comunque il trionfo di Maria. Come, lo sa solo Dio. Il trionfo del Cuore Immacolato di Maria attraverso un atto del Papa, un atto dell’autorità… Ci si domanda come ciò potrà avvenire, ma in fondo questo non è un problema nostro: il nostro compito è innanzitutto di chiedere questo trionfo al Signore con la preghiera e la penitenza.

(Fonte: Registrazione di Radio Courtoisie – Trascrizione di DICI del 4/02/2017)

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